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Stigma, quanti modi per dire non ti amo!
Stigma, quanti modi per dire non ti amo!
di Pigi Mazzoli
pigi.mazzoli@libero.it
(pubblicato in "Pride", gennaio 2012)

Una volta di più è dimostrato che lo stigma, qualsiasi stigma, favorisce solo il virus.

Stigma, nella Grecia antica, era il marchio che si imprimeva a fuoco sul bestiame come segno di proprietà; anche, il marchio a fuoco con cui si bollavano sulla fronte per punizione i delinquenti e gli schiavi fuggitivi, dal greco stízein “marcare, pungere”. Il dizionario prevede altri significati: in senso figurato e dispregiativo, la lombrosiana idea di poter cogliere nei tratti del volto la prova di una qualche malefatta o di una atavica predisposizione a qualche comportamento negativo. Poi c'è lo stigma come lo intendono i medici, che è la riconoscibilità di alcune affezioni, per via delle particolari modificazioni fisiche indotte nel paziente. Ne abbiamo parlato tempo fa qui, di lipodistrofia al volto e dell'intervento per riempire le guance. Ma c'è ora un altro significato oggi più attuale e studiato, che racchiude un inedito significato, oltre a queste due definizioni: lo stigma verso i sieropositivi.

Nel turbinio di manifestazioni, comunicati stampa, fermento dei social network, che avviene ogni primo dicembre, per poi acquietarsi per il resto dell'anno, un amico canadese mi ha segnalato su Youtube il trailer di un documentario statunitense contro lo stigma, per come lo intendono loro al di là dell'Atlantico. "HIV is not a crime" (La sieropositività non è un crimine), in cui l'autore Sean Strub racconta di come in 36 Stati USA esistano norme legali specifiche contro i sieropositivi, portando alcune interviste molto toccanti in cui ci fa comprendere che l'unico risultato notevole, al di là di rovinare la vita a persone che già vivono un battaglia contro il virus, è quello di scoraggiare la gente a fare il test, perché non si è condannabili al carcere per aver fatto sesso (sicuro) senza avvisare il partner del proprio stato, se neppure si sa di esserlo. Ma se meno persone faranno il test ci saranno più sieropositivi ignari che vanno in giro ad infettare. Come spiegava benissimo Giulio Maria Corbelli il mese scorso su queste pagine (Precauzioni “a punti”), per sconfiggere il virus non c'è una singola azione efficace, ma ce ne sono diverse che vanno il più possibile integrate tra loro. L'assumere la terapia farmacologica rende la persona meno infettiva, nella misura in cui è efficace in quel momento la cura su di lui. Quindi una legislazione punitiva rispetto al sieropositivo (anche in Italia si chiedevano a gran voce tali interventi, a salvaguardia dei "sani") assomma danno su danno. Penso (è malevola la mia ipotesi?) che una parte dei cittadini statunitensi sia così legata alle raccomandazioni bibliche da ritenere addirittura doverosa la persecuzione dei sieropositivi, in quanto (si ostinano a credere) colpisce solo omosessuali, drogati, libertini...
Nel documentario si spiegherà, ad esempio, di come queste leggi vengano spesso utilizzate per condannare i sieropositivi per atti che la scienza medica esclude come veicoli di contagio, come uno sputo o un morso o, appunto, il fare sesso sicuro, a riprova della capziosità delle norme.
Qui da noi non abbiamo leggi contro di noi, anzi, parte del merito dello sviluppo di leggi sulla privacy derivano proprio dal dibattito iniziale sulla segretezza o meno del test HIV. La legge obbliga i laboratori di analisi cliniche a segnalare alle ASL l'identità delle persone che risultano positive al test, ma istituisce anche la possibilità del test anonimo: per compensare, anche se parzialmente, la tendenza a non eseguire il test per non essere segnalati alle autorità. Anche senza leggi specifiche contro, ci resta comunque lo stigma sociale (e sessuale, di cui si è parlato spesso da queste pagine) e nel mondo del lavoro.

Ma i risultati di una ricerca sullo stigma, svolta dal Dipartimento di Psicologia Applicata dell’Università di Padova e da NPS Italia Onlus, che è il network delle persone sieropositive, e presentati in questi giorni, descrivono un ulteriore significato della parola "stigma". Quando una persona ti tratta come se tu avessi problemi tali per cui non puoi aspirare ad una vita normale, sia esso il tuo partner, la tua famiglia o il personale sanitario, è stigma. Nella ricerca un risultato paradossale è che lo stigma, così inteso, è maggiore nei sanitari, proprio in coloro che dovrebbero diffondere le corrette informazioni sul virus, la sua trasmissione e le possibilità di una vita normale. Non che il loro stigma sia un giudizio morale negativo. È l'idea irrazionale che il sieropositivo andrà in contro a problemi correlati, fisici o psicologici, enfatizzati dallo stigma rispetto alla realtà scientifica. Il grande danno è che questa loro visione viene trasmessa ai pazienti, che si convinceranno di avere difficoltà superiori al reale e non perseguiranno più le aspirazioni che sarebbero invece alla loro portata.
Mi viene in mente che vent'anni fa, quando comunicavo, con l'apprensione dovuta, ad un amico la mia sieropositività, era frequente sentirmi consolare con “Anche a me domani potrebbe cadere un vaso in testa e non esserci più. La vita è così”.
Ora che lo sapete, se un amico vi dirà di essere sieropositivo, ditegli “Spero di vivere a lungo, per esserti sempre vicino”.